Dopamina e apprendimento motorio nel Parkinson

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 25 marzo 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Nella malattia di Parkinson il deficit della segnalazione dopaminergica nigro-striatale, dovuto alla progressiva perdita dei neuroni a dopamina della pars compacta della substantia nigra mesencefalica, è considerato la base patologica principale della sintomatologia motoria e, anche se sono noti gli altri ruoli funzionali dei sistemi neuronici che segnalano mediante il rilascio della catecolamina, non sono considerati e indagati dalla ricerca sulla malattia neurodegenerativa. Ma, stante la complessità dell’organizzazione delle reti del sistema nervoso centrale e l’evidenza negli studi recenti sulla neurodegenerazione parkinsoniana di un interessamento dei sistemi neuronici non circoscritto e delimitato come si credeva in passato, si giustifica l’assunzione di un’ottica neurochimica nel focalizzare l’attenzione sul neurotrasmettitore dopamina.

Un dato ormai classico è il crollo dei livelli di dopamina sinaptica nel putamen posteriore e poi negli altri segmenti dello striato per la perdita dei neuroni della parte compatta della sostanza nera mesencefalica, che proiettano i terminali sinaptici dei propri assoni dopaminergici nei nuclei striatali. Le manifestazioni cliniche di parkinsonismo, ossia la lentezza motoria o bradicinesia, la difficoltà all’avvio dei movimenti o acinesia, il tremore a riposo con frequenza di 4-6 Hz, la rigidità cerea e l’inclinazione del busto in avanti, sono clinicamente evidenti quando si è già perso il 70% della dopamina striatale, cosa che avviene quando circa il 50% dei neuroni della parte compatta della sostanza nera di Sömmering sono degenerati.

Si ritiene che la segnalazione della dopamina svolga un ruolo di conduzione nei processi motori, promuovendone l’avvio e conferendo vigore nell’immediatezza di un atto. Ma la dopamina è anche neuromediatore importante per l’apprendimento, la plasticità e l’effetto a ricompensa.

L’apprendimento dipendente dalla dopamina è stato bene studiato nel condizionamento strumentale e pavloviano, ma il contributo dell’apprendimento dipendente da dopamina per i movimenti senza ricompense esplicite, come nel caso della motricità invalidata nel Parkinson, non è adeguatamente indagato. Scoprire il ruolo dell’apprendimento dipendente da dopamina nei movimenti non è importante solo per la conoscenza neurobiologica, ma anche per migliorare la terapia della malattia di Parkinson. Nei pazienti affetti da questa patologia, il recupero da deficit motori, come il ripristino della capacità di tamburellare le dita, può essere rilevato giorni o settimane dopo la sospensione del farmaco L-DOPA, nonostante l’emivita di questo precursore sia di circa 90 minuti. Questo effetto terapeutico a lungo termine, definito LDR (long duration response), è un aspetto critico della terapia del Parkinson, che dà conto di una frazione significativa del totale beneficio motorio derivante dalla L-DOPA. Il meccanismo dell’effetto LDR non è ancora bene definito e Timothy H. C. Cheung e colleghi lo hanno indagato adottando due distinti compiti motori in modelli murini della malattia neurodegenerativa. In tal modo hanno dimostrato che l’apprendimento dopamina-dipendente contribuisce ai sintomi parkinsoniani: lo “svuotamento” delle sinapsi dalla dopamina causava infermità motorie che peggioravano con l’uso e le ripetute reintegrazioni di dopamina inducevano recupero di lunga durata, che persisteva ben oltre la sospensione della somministrazione.

Timothy H. C. Cheung e colleghi ritengono che l’apprendimento motorio legato alla dopamina sia un importante fattore della risposta di lunga durata alle terapie sostitutive della catecolamina, come quella con L-DOPA associata agli inibitori periferici della decarbossilazione benserazide e carbidopa. I ricercatori osservano che gli studi sulla natura dell’effetto LDR possono aiutare a risolvere sia il problema della “fluttuazione motoria” dei trattamenti, sia il problema della valutazione dell’efficacia delle terapie.

(Cheung T. H. C. et al., Learning critically drives parkinsonian motor deficits through imbalanced striatal pathway recruitment. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.2213093120, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Neurology, Neuroscience Institute, New York University Grossman School of Medicine, New York, NY (USA); Department of Neuroscience and Physiology, New York University Grossman School of Medicine, New York, NY (USA); The Marlene and Paolo Fresco Institute for Parkinson’s and Movement Disorders, New York University Grossman School of Medicine, New York, NY (USA); Department of Neurobiology, Neuroscience Institute, University of Chicago, Chicago, IL (USA); The Parekh Center for Interdisciplinary Neurology, New York University Grossman School of Medicine, New York, NY (USA).

In questo modo nel 1817 James Parkinson descrisse le caratteristiche sintomatologiche salienti del disturbo neurologico eponimo, allora definito “morbo”: movimenti involontari con carattere di tremore, accompagnati da diminuzione della forza, non rilevabili nelle parti del corpo a riposo e nemmeno in quelle sostenute; una tendenza alla flessione in avanti del tronco e a passare da una deambulazione normale a un passo di corsa, con conservazione delle facoltà intellettive.

A duecento anni di distanza questa descrizione clinica è sostanzialmente valida, anche se può essere integrata da elementi tratti da una più precisa semeiotica di osservazione: il tremore[1], ad esempio, è evidente nella mano ferma non trattenuta dall’altra mano o impegnata ad afferrare, e si distingue dal tremore di origine cerebellare che si accentua nello sviluppo intenzionale dell’azione; la conservazione delle facoltà intellettive è una caratteristica che bene si spiega sulla base di una degenerazione in gran parte confinata alla componente originata dalla parte compatta della sostanza nera del sistema nigro-striatale, ma l’associazione di un decadimento cognitivo che evolve in un quadro di demenza è meno rara di quanto si ritenesse un tempo[2].

Nella descrizione di James Parkinson manca un preciso riferimento alla tipica rigidità parkinsoniana che non è spastica, ma oppone solo lieve resistenza al movimento passivo, e perciò è detta in semeiotica neurologica rigidità cerea. A causa di questa resistenza, quando si mobilizza un’articolazione, ad esempio flettendo e estendendo l’avanbraccio sul braccio del paziente, si avverte una resistenza che poi cede, a piccoli scatti, come se nell’articolazione ci fosse una ruota dentata: è appunto il cosiddetto fenomeno della ruota dentata.

Manca anche nelle parole del medico londinese il riferimento alla tendenza statica con difficoltà all’avvio dei movimenti, convenzionalmente definita acinesia, e la lentezza esecutiva o bradicinesia. Si può ritenere che Parkinson, nel suo accostare lo stato neurologico del paziente a quello di una paralisi, avesse incluso rigidità, acinesia e bradicinesia. Con criteri neurologici che si andarono affermando alcuni decenni dopo e sono ancora adottati oggi, il termine “paralisi” è erroneo, anche se l’uso che ne aveva fatto il clinico inglese voleva sottolineare il contrasto mai descritto prima in neurologia tra uno stato di infermità motoria o deficit di motilità e le scosse del tremore, molto evidenti nei suoi pazienti. Per questa ragione intitolò il suo saggio An Essay on the Shaking Palsy. Quando nel 1841 Marshall Hall diede alle stampe il suo trattato Diseases and Derangements of the Nervous System, si levarono molte critiche alla sua denominazione della malattia paralysis agitans, critiche erroneamente rivolte ancora oggi da alcuni autori a Marshall Hall[3], il quale si era limitato a tradurre in latino il nome dato alla sindrome dallo stesso James Parkinson.

Fu il neurologo tedesco attivo presso il King’s College Hospital di Londra e co-fondatore del Maida Vale Hospital for Nervous Diseases, Julius Althaus, a introdurre la denominazione eponima di malattia di Parkinson. Nel gergo clinico si conservò a lungo, fino alla scoperta del deficit dopaminico e all’introduzione del precursore L-DOPA in terapia, il termine “morbo”, per indicare un’entità clinica di cui non si conoscevano eziologia e patogenesi.

Pierre Marie scoprì che uno dei segni precoci, quando ancora non sono evidenti quelli che abbiamo menzionato, è la rarità dell’ammiccamento: una persona che ancora non presenta lentezza, tremore degli arti superiori fermi e instabilità posturale, batte le palpebre meno del normale. Fisiologicamente noi battiamo le palpebre da 12 a 20 volte al minuto; nel paziente parkinsoniano la frequenza si riduce a 5-10 volte e può associarsi una lieve modificazione della rima palpebrale dovuta all’ipomimia dei muscoli facciali, con conseguente aspetto di colui che fissa qualcosa. La riduzione di tono e movimento dei muscoli del viso si accentua solo col progredire della malattia e, nelle fasi avanzate, conferisce un’espressione statica innaturale, che può giungere fino all’effetto “maschera”.

Rinviando ai trattati di neurologia per la descrizione dettagliata delle manifestazioni cliniche e alle trattazioni specialistiche per le espressioni sintomatologiche delle lesioni dei cosiddetti gangli basali, qui ci limitiamo a ricordare che le descrizioni classiche impiegate per decenni, come quella di Hoehn e Yahr (1967), con segni come l’andatura festinante, erano state elaborate prima dell’introduzione in terapia della L-DOPA.

La vecchia distinzione tra malattia di Parkinson e parkinsonismi, come il parkinsonismo post-encefalitico, abbandonata alcuni decenni fa, si sta nuovamente facendo strada, accanto all’evidenza sperimentale dell’esistenza di forme neuropatologiche differenti in termini genetici, istologici e biochimici. Ormai da tempo è emerso che, come per la malattia di Alzheimer, esistono forme monogenetiche rare e forme comuni e frequenti ad eziologia multifattoriale, ossia causate da interazione tra fattori ambientali e fattori genetici. Conservando la categoria unica si riporta, ad esempio, un’età di esordio che va dall’età giovanile a oltre l’ottava decade, magari specificando che è rara prima dei 30 anni, e precisando che il maggior numero di casi si ha tra i 45 e i 70 anni[4]. In realtà, se si escludono i casi familiari di certa o probabile origine monogenica, l’esordio in molte casistiche è più spesso poco oltre i 60 anni.

Si riporta qui di seguito qualche cenno sulle prime acquisizioni di genetica del Parkinson, ricordando che una parte considerevole dei risultati delle nuove ricerche è stata da noi riportata nelle numerosissime recensioni di lavori originali proposte in questi anni nelle “Note e Notizie” del sito.

Nel 1997 una mutazione missense (A53T) nel gene SNCA dell’α-sinucleina fu identificata quale causa di malattia di Parkinson familiare, ereditata come un carattere mendeliano dominante e caratterizzata da una patologia a corpi di Lewy (Polymeropoulos et al., 1997). Successivamente, altre due mutazioni missense (A30P; E46K) furono identificate in famiglie con malattia di Parkinson e demenza a corpi di Lewy[5]. Complessivamente, tre mutazioni autosomico-dominanti quali causa ereditaria. Altre mutazioni autosomico-dominanti furono poi trovate nel gene LRRK2 (a.k.a. PARK8 codificante la leucine-rich repeat kinase 2) e oggi, che sono state trovate molte decine di mutazioni in questo gene, si considerano la causa più comune di malattia di Parkinson familiare. Sia SNCA che LRRK2 presentano molti polimorfismi comuni che esercitano effetti di rischio altamente significativi per le forme geneticamente complesse di malattia di Parkinson.

Le prime forme genetiche di malattia di Parkinson ad eredità autosomica-recessiva sono state identificate in tre geni: PARK2, che codifica l’ubiquitina-ligasi parkina, PINK1 e PARK7.

Oltre questi cinque loci genici, sedi di mutazioni causanti forme a eredità mendeliana, sono stati individuati numerosi altri loci per le forme familiari di malattia di Parkinson. Infine, vi sono gli studi di genetica delle forme ad ereditarietà multifattoriale.   

Dopo questa introduzione, ritorniamo allo studio qui recensito di Timothy H. C. Cheung e colleghi.

Come più sopra ricordato, la dopamina, oltre ad essere il neurotrasmettitore di circuiti cruciali per il movimento, è associata alla previsione della ricompensa e all’apprendimento, ma il contributo dell’apprendimento dipendente dalla dopamina all’esecuzione dei movimenti non è ancora ben definito. Cheung e colleghi hanno impiegato due distinti compiti motori per distinguere il ruolo della dopamina nell’attualità dell’esecuzione motoria (effetto acuto) dal ruolo di lunga durata mediato dall’apprendimento.

Nei topi privati della dopamina, la prestazione motoria gradualmente peggiorava con l’esposizione degli animali al compito da eseguire. È risultato evidente che l’esperienza conoscitiva del compito era di importanza critica, in quanto i roditori che rimanevano nella gabbia-dimora durante lo stesso periodo apparivano relativamente non invalidati quando successivamente erano messi alla prova col compito sperimentale.

Ripetuti trattamenti di reintegrazione della dopamina acutamente compensavano i deficit e gradualmente inducevano un recupero a lungo termine che persisteva nonostante la sospensione della somministrazione della catecolamina. Con sorpresa dei ricercatori, sia il recupero di lunga durata sia il declino della prestazione parkinsoniana erano specifici per ciascun compito, cosa che implica un apprendimento dopamina-dipendente.

L’attivazione dei recettori dopaminergici D1 induceva un potente recupero acuto che, gradualmente, si consolidava in reintegrazione funzionale di lunga durata. Per converso, la ridotta attivazione di D2 induceva potentemente il declino parkinsoniano. Nei topi privati della dopamina, sia l’attivazione dei recettori D1 che l’attivazione dei D2 preveniva il declino parkinsoniano, ed entrambi ristabilivano l’attivazione bilanciata tra le vie striatali dirette e indirette.

Presi insieme, i risultati della sperimentazione suggeriscono che il rinforzo e il mantenimento dei movimenti – anche movimenti che non conducono ad una ricompensa esplicita – sono funzioni fondamentali della dopamina e rappresentano meccanismi potenziali per la fin qui non spiegata risposta di lunga durata alle terapie dopaminergiche nella malattia di Parkinson.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-25 marzo 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Nella maggior parte dei pazienti la frequenza del tremore è stimata in 4-5 scosse al secondo, ma in alcuni appare più rapida e raggiunge le 7-8.

[2] Note e Notizie 02-07-11 Origine delle oscillazioni beta patologiche nel Parkinson.

[3] Adams and Victor’s Principles of Neurology (Ropper, Samuels, Klein), p. 1082, McGraw-Hill 2014.

[4] Cfr. Adams and Victor’s Principles of Neurology (Ropper, Samuels, Klein), p. 1082, McGraw-Hill 2014.

[5] I corpi di Lewy sono costituiti da α-sinucleina mutata.